Era il maggio 1994 quando l'ho sentita cantare dal vivo (in televisione) per la prima volta. Non avevo ancora 16 anni. Stavo facendo zapping e stavo per andare a letto (il giorno dopo avevo scuola). Proprio mentre stavo per spegnere il televisore, apparve lei, Whitney Houston: avvolta in un abito bianco e nero, i capelli legati all'indietro, gli occhi sognanti, il pubblico rapito ai suoi piedi, bellissima. Cominciò a cantare: "If I... should stay...", i primi versi di "I will always love you", e rimasi a bocca aperta!
Fino ad allora avevo sentito qualche sua canzone, ma odiavo quella "I will always love you": era ovunque. La suonavano ininterrottamente alla radio nell'autobus che mi portava a scuola, a casa mentre facevo i compiti, in palestra... Non la sopportavo! Ma sentirla cantare dal vivo, e anche meglio che nell'album, beh, non mi era mai successo prima.
Da quel momento ho ascoltato tutti i suoi dischi, ho conosciuto tutte le sue canzoni, ho gioito dei suoi trionfi, ho assistito al suo tragico declino e ho pianto per la sua improvvisa scomparsa l'11 febbraio 2012.
Di lei si possono dire molte cose, ma è stata senza dubbio una delle più grandi artiste, e forse la più grande voce, di tutti i tempi, la più premiata della storia. Negli Stati Uniti la chiamano ancora "The Voice".
Destinato a diventare una leggenda
Whitney Elizabeth Houston è nata a Newark, nel New Jersey, il 9 agosto 1963, ultima figlia di John e Cissy. Sua madre era cugina di primo grado di Dionne Warwick e famosa cantante gospel, oltre che celebre corista di Elvis Presley e Aretha Franklin (la famosa nota di soprano alto di "Ain't No Way" della Franklin è sua).
Da bambina, Whitney (che aveva due fratelli maggiori e veniva chiamata Nippy dalla famiglia) cantava nella chiesa in cui la madre dirigeva il coro (New Hope Baptist Church di Newark) e si distingueva per la sua voce prodigiosa (cantò il suo primo assolo all'età di 11 anni). Essendo anche molto carina, ebbe l'opportunità di posare come modella per la rivista Seventeen (prima ragazza di colore a comparire sulla copertina) e di fare alcune apparizioni in serie televisive. Iniziò la sua carriera musicale come corista insieme alla madre per diversi artisti (tra cui Chaka Khan in "I'm every woman", di cui avrebbe poi fatto una famosa copertina).
L'occasione, però, arrivò quando, in un locale di New York dove cantava con la madre, Whitney eseguì una versione di "Greatest love of all" di George Benson davanti al produttore di quella stessa canzone, nonché uno dei grandi della musica (avendo prodotto, tra gli altri, Aretha Franklin e Janis Joplin): Clive Davis. In un'intervista, Davis dichiarò di essere rimasto colpito (come me e molti altri) dalla voce più bella della sua generazione e dal modo in cui aveva interpretato quella canzone, che lui stesso aveva prodotto anni prima, dandole un significato, un'anima, che nessun altro era riuscito a darle.
Davis mise Whitney sotto contratto con la Arista Records e, da quel momento, fu un successo dopo l'altro: il primo album, "Whitney Houston" (1985), con hit come "You give good love", "Greatest love of all", "How will I know", "All at once"; il secondo, "Whitney" (1987), con la celebre "I wanna dance with somebody". In pochi anni, Whitney Houston è diventata una grande star, la prima donna ad avere sette numeri uno (superando i Beatles), premi a bizzeffe (Grammy, American Music Award e altri) e fama mondiale.
Troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri
Con il successo, naturalmente, arrivarono anche le prime difficoltà. Fin dall'inizio, Whitney dovette affrontare un cambio di rotta rispetto alle altre cantanti afroamericane: sonorità più pop, melodie semplici e non troppo gospel o soul (ma nelle esibizioni dal vivo la sua voce lasciava, come Aretha Franklin, un'impronta soul indelebile), e questo per renderla più accettabile al pubblico bianco (e il pubblico afroamericano non gradì, tanto che a volte la fischiava sonoramente e alcuni la chiamavano Oreo, come i biscotti neri fuori e bianchi dentro).
Tuttavia, è stata la prima cantante afroamericana a diventare una star di MTV, aprendo la strada ad altre dopo di lei e inventando un modo di cantare che tutte le sue eredi hanno poi cercato di eguagliare (Céline Dion, Mariah Carey, Beyoncé, Adele, ecc.).
Ci sono state anche voci sulla sua vita sentimentale e privata (su cui non mi soffermo) che lo hanno sempre fatto soffrire molto.
Whitney cercò di adattarsi, ma poi cominciò a emergere il suo carattere, con il desiderio di qualcosa di più suo, tanto che riuscì a prevalere su Davis per produrre un album, "I'm your baby tonight" (1990), che si discostava notevolmente dai primi due, con sonorità più nere.
"The Bodyguard" e gli anni '90
La svolta doveva ancora arrivare, e infatti arrivò nel 1992, quando Whitney recitò accanto a Kevin Costner nel film "The Bodyguard", che la fece conoscere ancora di più in tutto il mondo, la rese la cantante più famosa al mondo e produsse il singolo femminile più venduto della storia ("I will always love you", scritto e cantato anni prima da Dolly Parton) e la colonna sonora più venduta di tutti i tempi.
Nel frattempo, il matrimonio con il celebre Bobby Brown e la maternità (la figlia Bobby Kristina è nata nel 1993 e, purtroppo, è morta qualche anno dopo la madre, anch'essa trovata priva di sensi nella vasca da bagno).
Nonostante le prime tempeste emotive e i problemi di droga, gli anni Novanta sono stati ricchi di successi (altri due film: "Aspettando di esalare", con la relativa colonna sonora, e "La moglie del predicatore", con l'omonimo gospel cantato dalla Houston, che è diventato l'album gospel più venduto di tutti i tempi).
Un altro album acclamato dalla critica e dal pubblico è stato "My love is your love", più orientato verso l'hip hop.
Declino e morte
Gli anni Duemila sono stati segnati soprattutto da problemi di droga, disintossicazioni e perdita della voce, ma anche da altri due album ("Just Whitney", 2002, e "I look to you", 2009), da produzioni cinematografiche, dal divorzio della Brown e da diversi tentativi di ritrovare la voce e il successo.
Nonostante abbia tentato con tutte le sue forze di rimettersi in piedi, Whitney Houston è morta l'11 febbraio 2012 in un hotel di Beverly Hills, non tanto a causa delle droghe (che pure hanno contribuito, insieme al fumo, al suo deterioramento fisico), quanto per problemi cardiaci dovuti all'arteriosclerosi, una malattia che aveva colpito anche un'altra delle grandi voci del XX secolo: Maria Callas.
Fede ed eredità
Whitney Houston è sempre stata molto religiosa. Oltre a passare anni e anni a cantare in chiesa, ha sempre testimoniato pubblicamente la sua fede battista. Le testimonianze dei giorni precedenti la sua morte raccontano del suo desiderio di incontrare finalmente Gesù, stanca di tutte le vanità del mondo dello spettacolo. Diversi amici, tra cui Robyn Crawford, hanno testimoniato che si chiudeva nella sua stanza per ore per "parlare con Gesù".
Certo, la sua vita terrena si è conclusa tragicamente, ma la sua eredità artistica e umana è destinata a vivere per sempre. Concludo con il necrologio che più mi ha colpito dopo la sua morte, quello della grande cantante italiana Mina:
"Se ne vanno, vogliono andarsene. Un'altra tragedia, un'altra assurdità, un'altra assenza, un altro mistero. Non voglio sapere perché Whitney Houston è morta. Non voglio collegare, ancora una volta, un grande talento musicale con storie di droga. L'equazione "maledetta" che associa il successo alla fragilità, l'arte alla depressione, l'applauso alla droga continua a perseguitare un mondo che, in superficie, contiene solo privilegi.
Per favore, non ditemi se è davvero così. Voglio ricordarla così come la vedo: alta, bella, di straordinario talento. So poco della sua vita. So tutto della sua musica. Un angelo che canta così avrebbe meritato quello che ora sembra un "premio" irraggiungibile: un'esistenza consapevole, una vita felice. Ha davvero inventato un modo di cantare, non facile, che tutti hanno cercato di imitare. È diventato il termine di paragone. La cartina di tornasole. Il modello. L'irraggiungibilità.
E, come spesso mi accade in casi come questo, non posso fare a meno di chiedermi dove finisca il talento di una persona quando non è più nella forma che conosciamo.
Tuttavia, chi ha fede può ricordare le parole di una famosa e bellissima canzone resa celebre da Whitney: "Jesus loves me".
"Gesù mi ama, lo dice la Bibbia e io ci credo. I piccoli appartengono a lui: noi siamo deboli, ma lui è forte. E io mi spingo verso l'alto, prego: Signore, guidami! Sono indegno e testardo, lo so, ma non smettere mai di amarmi. A volte mi sento solo, ma so che non lo sono mai, perché Gesù mi ama, lo so, quando sbaglio e quando ho ragione. Amen.